Inediti

Hackert, l'Onda e la Cosa dei Fantastici 4


Lara Zankoul, The Unseen, 2013

Lo scalone che immette nel vestibolo superiore della Reggia di Caserta (l'antica Casa Hirta) è costituito da una rampa i cui gradini, bassi e levigati, sono larghi quasi otto metri e sono ricavati da blocchi di lumachella di Trapani. Il leone di sinistra lungo l'ascesa, scolpito da Paolo Persico, doveva celebrare, insieme al dirimpettaio opera di Tommaso Solari, la règia maestà dei Borboni, dinastia in auge circa 300 anni fa.
Proprio per questo sorprende agli occhi di uno spettatore consapevole quell'espressione impacciata, turbata, quasi sofferente, con cui volge gli occhi verso l'alto.
Spettatori consapevoli del resto non ce ne sono da un po', né fotografi di bimbi a cavalcioni o simulatori d'azzannamenti con la mano tra le fauci (l'iconografia a cui i felini facevano da contorno era monocorde). Piuttosto rimane la bardatura di muschi sul ventre e sulle zampe, e sorte d'alghe affastellate alla criniera, tipo rasta.
Cosa è successo alla fiera? Cosa vuol significare quello sguardo? Che si sia stemperato l’originario imperio in una soluzione di H2O?

Il pesce grigio ha cessato di giocare a rimpiattino con gli sparuti colleghi. Adagia indolente il mento alla sommità di un'algona lanceolata che spunta dalla coda del leone e s'esibisce sinuosa in una danza del ventre (l'ombelico? una macchiolina bianca a fianco della milza).
Difficile dire se quell'alga sia vera o posticcia. Tant'è che fa le bolle, s'affloscia e poi s'innalza rigogliosa dal fondale.
Sì, deve essere vera. Altrimenti il pesce grigio non si fiderebbe a tenere il mento appoggiato su quel verde lembo lì, proprio all'altezza della "C" di "Made in PRC".
I suoi occhi poi sono i tipici occhi di pesce, i rinomati occhi di pesce, gli ammalianti occhi di pesce, di quelli che ai bei tempi vedevi sui marmi bianchi delle pescherie che ti guardavano glauchi e annoiati, come a volerti dire: "Bello, c'hai 'na sigaretta?"
E tu distoglievi lo sguardo anche se la sigaretta ce l'avevi, perché poi t'avrebbe chiesto di imboccarlo. Allora preferivi buttare un occhio all'arredo della bottega, alla spada del pesce omonimo, alla piovra impagliata, al plancton sotto formalina, ai quadri appesi, marine vagheggiate di porti secenteschi, sagome che trafficavano pesce vestite da Masaniello.
Le stesse che sembra decorassero le sale del Palazzo prima della Seconda Onda. Si dice che un Hackert avesse fatto da zattera ad un bimbo e poi s’era inabissato con quello.

“Fanculo”, mima Stepan Stepanovic, “qua ci sono solo pesci spazzino e pesci fumo”.
Entrambi tossici, il pesce fumo si spappola al tatto (i primi che l’ebbero succhiato raccolto in una ciotola non lo avevano raccontato), mentre il pesce spazzino si chiama così non solo perché si ciba per lo più di relitti plastici e gommosi, ma perché per mutazioni transgeniche che gli epigoni di Darwin saprebbero spiegare ha coagulato macule sul ventre che sono la sigla “N.U.”
Naghib Assan fa cenno che è corto d'aria. Fanno l'ultimo giro attorno ai leoni e poi sbracciano per risalire stornando a tratti gli occhi dalla luce abbagliante della superficie per riporli sui felini e la lumachella che scompaiono in un pulviscolo.
“Il giallo c'ha le pigne in capa. Chi cazzo gliel'ha detta 'sta stronzata del sugariello da queste parti?”, ansima l'arabo a pelo d'acqua.
Il pesce sugariello è un mutante non tossico, che Dio sa cosa mangia. Assunto in quantità superiori alla soglia di sostentamento provoca diarrea e in qualche caso convulsioni. Tuttavia di questi tempi è un piccolo tesoro: se gli si mozza la coda gli ricresce in un paio di giorni. E la coda è commestibile. C'è gente che col sugariello in riserva ci tira un paio di primavere. Si dice poi, ma non è certo, che esiste un sugariello simmetrico. Se gli tagli la coda dal corpo gliene spunta un'altra, e dalla coda mozza spunta un altro sugariello. Se così fosse la frenesia del giallo di trovarlo avrebbe ancora più senso.
“Sono spompato, ci riproviamo domani”, sentenzia Stepan Stepanovic.
“Se ne trovo uno simmetrico col cazzo che glielo porto”, soggiunge Naghib Assan.

Il giallo è al secolo Kim Do Chen, ha tre figli e sei carcasse di suv, che è tutto dire in una comunità in cui sono parecchi i senzatetto e poter alloggiare una famiglia in una carcassa di suv è già un privilegio. Oltretutto tre di quei suv sono dei Dodge, non si sa dove li ha recuperati e chi glieli ha normalizzati togliendo motore e cose inutili. Nei fatti il giallo di questi tempi è un po’ come il re di quei Borboni della Reggia.
Se invece di Caserta fosse stata Venezia, la prima città ad inabissarsi con la Prima Onda, lo avremmo definito il Doge coi Dodge.
Confesso che è frustrante per una voce narrante fare un calembour del genere ad uso di quattro pesci tossici e della progenie di immigrati dalla memoria corta.
“Memoria corta lo dici a sòreta”, fa Stepan Stepanovic.
“Lascialo sta'. Se aveva le palle scendeva con noi invece di sparare cazzate”, aggiunge il compare.
Preferisco non commentare, se non puntualizzare che in apnea arrivo anche a trenta metri.

L'alba si leva muta ed instilla un iniziale criterio di moto nella torpida fauna di superficie di Caserta (l'antica Casa Hirta). E insieme all’alba i primi pensieri si levano, si scollano dalle pareti drappeggiate dei sogni e vagano prossimi ai crini affossati sui reclinabili. Dei sogni quei pensieri hanno la brama del volo; ma il mondo empirico e gravitante è altra cosa dai sogni, e quei voli abbozzati si frenano presto, si schiantano sul vetro fumé del parabrezza.
Così i pensieri picchiano la testa.
Ma cos’è la testa se non la madre di tutti i pensieri?
I pensieri dunque picchiano la loro madre e vi fanno poi ritorno tipo yo-yo, come tanti figlioli prodighi. Ma se i pensieri sono sogni al guinzaglio, i sogni stessi sono gabbie dalle sbarre flessibili, da cui si può scappare facile.
In particolare la prostatite è nemica dei sogni. Chi ne soffre s'alza sovente assonnato per pisciare. Non recide la tela dei sogni ma la lascia imbastita per riannodarla di lì a poco nel giaciglio ancora tiepido e molleggiato. E’ quanto capita a Stepan Stepanovic.
Quale pescatore a cottimo vaga anche lui sul limine del dormiveglia e soffre di prostatite. Se desidera riprendere il sonno non deve pensare di stare vagando sul limine del dormiveglia, non deve scandire a mente imprecazioni per lo stimolo importuno, non deve sottoporre all'acume tattile del buio le pareti lisce o rugose d'una nota topologia domestica (né tampoco le tette della donna che posa sul sedile lato guida), non deve recepire il gocciolare infido e numerabile d’una cloaca a cielo aperto, né il becchettare d’un inquieto uccello notturno sul tetto dell’auto.
Quando il limine però è inevitabilmente varcato a Stepan Stepanovic non rimane che sgusciare via dal suv, pisciare e indugiare a perdita d’occhio sull’alba livida e il giorno in fieri. Poi con la luce sufficiente dà un paio di colpi alla portiera di Naghib.

Ruggero d’Altavilla, altrimenti detto il Normanno, da Conte di Sicilia sbarcò sul continente un migliaio di anni addietro e conquistò Amalfi, Salerno e parte della Puglia. Si fe’ prima beffe dell’ostilità di papa Onorio II, poi appoggiò lo scisma per l’elezione del successore, continuò il suo risiko personale divenendo Conte di Capua, Napoli e Bari, e venne alfine incoronato Re di Sicilia a seguito di una bolla emessa dal suo papa Anacleto II.
Finché i polmoni lo reggono anche Naghib Assan non scherza ad emettere bolle, sebbene non determinanti per il corso della storia di queste parti. Sta faccia a faccia con l’effigie del sovrano incastonata in uno dei tanti medaglioni dorati della Sala del Trono della Reggia di Caserta (l’antica Casa Hirta). La sala è sconfinata, crepata in parte, gli affreschi sono andati via col trono e le suppellettili, ma i pavimenti resistono. C’è pulviscolo nell’acqua, microrganismi nel migliore dei casi, particole di monnezza da discarica nella comune vulgata. Tant’è che Naghib non vede la parete opposta ed ogni tanto pure Stepan scompare dalla visuale.
Come volevasi dimostrare, fa cenno al compagno, sugarielli manco a parlarne, solo qualche cazzo di pesce fumo. L’arabo si tocca di taglio la carotide per dire che è a rosso e risale veloce in superficie.
“L’acqua è fredda e già sono spugnato. Tra poco divento una foca e dò un mozzico in culo al cinese”.
Delle foche c’è ancora memoria sebbene se ne siano andate con le ultime calotte polari. Col loro pelo il cinese ci fece delle ciabatte tutt’altro che calde: le chiama le calosce polari.
Lui è un convertito dalla Seconda Onda. Le sue carabattole e un paio di figli quella se li portò via insieme a un Buddha ch’era aduso pregare e che s’inabissò placido come un fuso. Si ritrovò così a galleggiare appeso con altri ad un crocifisso dalla buona spinta idrostatica. Lo prese come un segno. Ci montò sopra mentre gli altri esausti mollavano la presa. Ora quel crocifisso campeggia sulla sua testa incastonato tra due Dodge.

I due giovani scatarrano immergendo per un secondo la faccia in acqua. E ancora per un secondo incrociano la sagoma maestosa della Reggia un bel po’ di metri sotto di loro.
Ad averci i poteri quattro supereroi di buona volontà potrebbero sollevarla dai quattro angoli e piazzarla sulle terre emerse, a Casolla magari, o alla Vaccheria.
Da piccolo mio nonno, anche lui voce narrante, mi parlava della Cosa dei Fantastici 4 e dei suoi poteri, ed io provavo a figurarmela. E non di rado mi capitava di vedere ‘sta Cosa accompagnarmi per mano in un nuovo risveglio di questo lato del pianeta, e nel momento in cui pensavo a "questo lato del pianeta", e alla rotazione e alla rivoluzione, e alla montagna petrosa dai sentimenti umani che mi introduceva agli spasmi di una giornata in fieri, sentivo la zolla dura della terra aspettarsi qualcosa dai miei verdi anni.
Le terre emerse già s'erano ridotte di parecchio, ma non quanto avvenne con la Terza Onda.
La Cosa dei Fantastici 4 mi infuse così una coscienza tardoecologica.
Il nucleo minerale del pianeta era un cuore incandescente dagli icastici bollori, ed io, ogni volta che mi alzavo dal sedile del suv, sentivo di appiedare su un organismo trepido e pulsante.
E di quel pianeta, del mio pianeta, avvertivo il vero volto: fiero, turbinoso, gravitante quanto basta. E quel senso di vitalità ascoso dalla dura contingenza subpodale lo sentivo acuito in occasione dei terremoti, allorquando il mio rapporto di iniqua simbiosi con la terra vacillava come i pioli della scala Richter. Le Onde hanno solo stemperato questa consapevolezza. Certo nessuno immaginava che quelle cazzo di calotte polari a sciogliersi avrebbero fatto tutto ‘sto casino. E quel che è peggio è quel sapore di irreversibilità, di deriva senza ritorno.
Se riscaldi troppo un acquario fai una zuppa di pesce, ma se poi raffreddi la zuppa di pesce non ti ritrovi l’acquario.
Comincio a pensare che la mia progenie di voci narranti sarà anfibia.
“Vedo dalla tua faccia che non ne avete trovati. Non sapete sognare...”, fa il giallo.
“Abbiamo passato più di un'ora là sotto. Non è questione di sogni, signore. E' il nostro mestiere”, replica con puntiglio lo slavo.
“Trovatevene un altro”, è il lapidario congedo di Kim Do Chen mentre gli allunga tre manciate d'uva passita.
“Dov'è il tuo compare?”, gli chiede.
“All'ultima discesa non è risalito”, fa Stepan con un tic all'occhio, guardando indietro verso la risacca che lambisce il porticciolo di Pozzovetere. Il giallo sospira profondamente, si segna guardando in alto il torrione della vecchia Caserta Vecchia.
Ora si chiama solo Caserta, perché due negazioni affermano, e perché l'altra non c'è più.
Casa Hirta alle origini e alla fine: nomen omen.
Poi allunga al ragazzo un'altra manciata di uva passita.

Gero Mannella Copyright 2009


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